Il culmine della visita è stato lo Judisches Museum, ovvero il museo degli Ebrei. Interessante soprattutto come organizzazione, essa contiene, oltre a una vastissima raccolta di lettere, fotografie e di oggetti che raccontano, in un modo o nell'altro, la storia di ebrei deportati nei vari campi di concentramento, anche una sezione (vastissima) che narra invece la cultura ebrea, "l' odore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell'esodo ogni secolo rinnovato" (Se questo è un uomo, P. Levi, cap. I, "Il viaggio").
Nel museo, i colori predominanti erano il nero e il bianco. Architetture spigolose, inclinate, indefinite, assenti ma che sanno come attirare l'attenzione. Travi "incombenti" sulle scale principale, che sembrano crollare da un momento all'altro, rigidi, ma privi di ogni capacità di entrare nell'insieme cui appartengono, eppure vi appartengono. Tre le porte che davano l'ingresso a stanze inermi, sì, ma da pelle d'oca. Forse per l'irrescindibile reminiscenza che provocavano nella mia mente.
Un giardino di forme elementari, parallelepipedi di cemento dal colore nero-grigiastro, quarantanove di queste lastre, che davano l'impressione di cedere da un momento all'altro; erano tutte curiosamente inclinate verso un lato, e ci si sentiva schiacciare dal loro peso: si chiama il giardino di ETA Hoffmann.
Poi, la seconda porta conduceva a una torre altissima, sempre nera. L'unica sorgente di luce (naturale) era quella fessura fra i due spigoli della parete, ma era talmente in alto da non poter essere raggiunta, quasi nemmeno dallo sguardo... sembrava messa lì per mostrare un punto di arrivo, la libertà del "fuori", della luce del sole, ma sicuramente inafferrabile. L'unico tentativo di fuga era una scala; ma non conduceva da nessuna parte. Non c'era fuga, ancora una volta...
La Torre dell'Olocausto. Così è stata chiamata.
Infine la terza era una stanza di visi di metallo squadrato, tutte faccine di un metallo grigio, probabilmente erano di ferro, con la stessa espressione, con quei quattro buchi tondeggianti, le bocche spalancate ad urlare attraverso il tintinnìo dei passi che li calpestavano; era l'unica loro valvola di sfogo: dovevano essere pestati dai nostri piedi per parlarci, noi camminavamo sopra la loro disperazione resa in un'espressione facciale rigida, e loro così si facevano sentire. Semplicemente il Memoriale dell'Olocausto.
l'ho visto e studiato anche io...mi ha fatto passare per la spina dorsale un dolore immenso e più ci penso più mi ricordo il nodo allo stomaco che ho avuto entrandoci..
RispondiEliminaGià, concordo il tuo stato d'animo... per fortuna, l'ultima sezione era la più allegra, più vivace e colorata rispetto all'anonimo bianco e nero e grigio della prima parte...
RispondiEliminaMah... non per fare l'insensibile ma io questa sensazione non l'ho provata visitando il museo. I significati erano decisamente molto profondi ma la costruzione mi "ha colpito di più la mente che il corpo". In altre parole ho trovato i motivi simbolici degli spazi interessanti ma non ho sentito mutamenti di stato d'animo nel visitarli. Forse perchè non ero in vena o perchè la quantità di gente che visitava il museo rovinava un pò l'atmosfera. In realtà c'è una sezione mi ha coinvolto veramente: il cortile quadrato dalle 49 colonne. è davvero particolare la perdita di eqilibrio che si prova nell'attraversarlo.
RispondiEliminaCavolo che pensieri incasinati! fatico a leggerli io!!
E' un po' l'opinione di mio fratello. L'ho visitato con lui, questo museo, e ho riscontrato molte analogie fra quello che mi diceva lui e quello che hai scritto tu. Secondo lui, non cambiava trasferirsi da una stanza all'altra: come era nella sala interattiva, così era anche nel Memoriale all'Olocausto.
RispondiEliminaPrendeva tutto in modo molto distaccato... forse perché il tentativo della mostra di provocare un certo stato d'animo nei visitatori gli ha prodotto l'effetto opposto, ossia quello di non emozionarsi particolarmente.
Boh!
ah mi ero dimenticato di segnalare che all'entrata del museo fanno un hot dog sensazionale!
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