venerdì 28 settembre 2007

Onde



Ho ripreso in mano come non mai un grandissimo mezzo dalle potenzialità esclusive, uno strumento il cui timbro e la cui capacità espressiva, così varia e informe, indefinibile per certi aspetti, sanno prendere forma dalle mani che lo suonano. Si definisce così la forma di una musica scritta con note e righe, pallini bianchi e neri, chiavi e lettere astruse. Non c'è altra possibilità per un pianoforte se non adattarsi a chi si impadronisce di lui; quante volte mi sono sentita ripetere: sei tu che comandi, lì sopra, dopodiché il resto viene da sé; ma intanto, pressa su di lui, addestralo, catturalo, rendilo tuo. Quand'ero più piccola, mi spaventava l'idea di dover dominare su quelle note legate, staccate, accennate, calcate, sfiorate, accentate, e aggiungere a questa lista il participio VOLUTE.
La ricerca di quello che voglio produrre, di quello che voglio sentirmi dire da lui mi costa fatica e sconforto a volte.
Questi ultimi giorni, scorre tutto, le note, i pensieri, arrivo alla fine del pezzo col fiatone, stanca di rincorrere questi flussi. Resta il fatto che sento me e le note, quelle che dovevo imparare a dominare, rotolare senza possibilità di interrompersi. I crescendi e i diminuendi scandiscono la rabbia o la piacevolezza delle onde pentagrammate.
Non so bene che tappa sia questa durante lo studio di uno strumento, né so perché è saltata fuori in questi termini. Cosa ha condizionato questo mio nuovo approcio con il pianoforte?

Ogni qualvolta che passo per il soggiorno, durante l'orario in cui mi è permesso dai vicini di suonare, non riesco a trattenermi dal sedermi sullo sgabello nero e dare vita e sfogo a qualche nota e accordo. E mi rendo conto di perdere anche tanto tempo, stare lì a dialogare con il nulla.


Non penso di aver mai amato tanto quel bianco e quel nero.

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